Una lettura winnicottiana del romanzo “Narciso e Boccadoro” (H.Hesse)
Scorrendo il romanzo di Narciso e Boccadoro incontriamo un mondo particolare, definito su un piano narrativo ma non precisamente determinato da un punto di vista psicologico, ricco di particolari e allo stesso tempo povero di certezze.
Nonostante ad una prima e superficiale lettura possa apparire uno scenario chiaro, dettato dalla storia di due giovani personaggi che incrociano la propria esistenza in un preciso momento della loro evoluzione, quello che emerge progressivamente è una configurazione di vissuti psicologici difficilmente interpretabili su un piano prettamente razionale, ma che riesce ad esprimere con inattesa chiarezza un mondo sentimentale assai denso e complesso.
Dopo una parte introduttiva segnata dall’arrivo di Boccadoro nel convento nel quale Narciso vive e gode di ottima fama, tramite sottili espedienti narrativi si struttura la figura di Boccadoro come personaggio impegnato a pieno nell’estenuante e poco fruttuoso compito di ricerca dell’ approvazione altrui.
Sebbene in apertura il tema della compiacenza come mezzo onde poter ottenere approvazione possa non essere considerato interessante, in realtà al lettore psicologicamente centrato offre un prezioso spunto di partenza per poter affrontare l’evoluzione di una figura personologicamente tutt’altro che banale.
Boccadoro entra in convento con esteriorizzata tranquillità ma con profondi vissuti di gioia ed entusiasmo – sarcasticamente scrivendo – propri di chi sia ben consapevole di dover un giorno diventare frate soltanto per assecondare la richiesta genitoriale. Al personaggio la non accettazione della volontà paterna non è affatto chiara; quello che egli riesce a percepire è riconducibile ad un insieme di stati d’animo o, più precisamente, di sensazioni interpretabili come segni di disaccordo, al quale però non riesce a fornire spiegazioni in grado di permettere una messa in discussione di tali richieste esterne.
Mentre fuori dal convento la figura da compiacere è rappresentata dal padre-autorità, all’interno delle mura Boccadoro riconosce in Narciso l’alter-ego paterno, da ammirare e da cui ricevere ad ogni costo ammirazione e interesse.
Narciso, attraverso la padronanza di elementi rispecchianti una cultura dotta quali il greco e la filosofia, esprime la perfezione sociale di una figura per definizione occupante un posto ammirato e desiderato.
Benché scorrendo le prime pagine si possano trarre giudizi affrettati sulla connotazione dei due personaggi, in realtà la costruita e ricercata grandiosità di Narciso cede durante lo svolgimento del romanzo per far posto ad un apparentemente più reale modo di essere e vivere in tal modo, riconosciuto e approvato come tale da Narciso stesso. Al contrario, Boccadoro non riesce ad accettare il suo ruolo e vive il peso del vuoto interiore rappresentato da un pattern di richieste ambientali dettate fin dalla tenera età e che non ha potuto far altro che accettare. Mentre a Boccadoro questo non è subito chiaro o, meglio, trova comunque più semplice vivere nell’eterna accondiscendenza pur di non dover riscoprire le proprie deficienze sofferte, a Narciso, profondo intenditore psicologico dell’anima altrui, l’essenza reale del nuovo amico è subito chiara.
Quello che Narciso capisce per primo è che la figura con cui parla ha vissuto fino a quel momento senza potersi preoccupare delle proprie esigenze e della propria individualità, ma all’opposto ha dovuto crearsi un insieme di difese e modalità in grado di permettere il proprio sviluppo; questo è ben chiaro nel pensiero del giovane dotto, il quale non ha paura di sconvolgere l’amico ma, anzi, sa bene che soltanto attraverso un profondo vissuto di lutto potrà accedere, forse per la prima volta, al proprio vero Sé celato a protezione negli anni da un esasperato falso Sé compiacente. Proprio Narciso sarà la prima ed unica figura a permettere la riscoperta del vero Sé a Boccadoro, attraverso un’espressione tremendamente mirata e psicologicamente importante:
«Io ti prendo sul serio quando sei Boccadoro. Ma tu non sei sempre Boccadoro. Io non mi auguro altro se non che tu divenga Boccadoro in tutto e per tutto. Tu non sei un erudito, tu non sei un monaco… per far un erudito ed un monaco basta una stoffa meno preziosa della tua. Tu credi che ti giudichi troppo poco logico, o troppo poco pio. No, per me sei troppo poco te stesso» (P. 40).
E così Narciso offre a Boccadoro la possibilità di incontrare il proprio reale mondo interiore. Ma l’erudito amico sa bene che non sarà un incontro semplice e piacevole, almeno all’inizio, e che si tratta soprattutto di incontrarsi psicoanaliticamente con un’infanzia perduta che continua a vivere dentro di lui soltanto attraverso la funzione espressiva del disagio:
«In te, Boccadoro, lo spirito e la natura, la coscienza e il mondo dei sogni sono lontanissimi fra loro. Hai dimenticato la tua infanzia, e dalle profondità della tua anima essa ti cerca. Ti farà soffrire finché non le avrai dato ascolto… Basta! Nell’essere sveglio, ripeto, sono più forte di te, in questo ti sono superiore e ti posso aiutare; in tutto il resto, caro, sei tu superiore a me… o meglio, lo sarai non appena avrai trovato te stesso» (P. 41).
Ritrovare se stessi diventa l’imperativo che Narciso pone al compagno, la meta da raggiungere onde poter ottenere quello che più gli manca, ossia il contatto col vero Sé.
Boccadoro, arricchito dalla cruda e necessaria modalità con cui l’amico esprime i suoi giudizi, riesce a superare la profonda trincea imposta dal falso Sé e intravede una figura di primaria importanza la quale era stata dal padre barbaramente estirpata dai propri ricordi, ovvero sua madre:
«Era stato altrove, molto lontano, aveva visto qualcosa, qualcosa di straordinario, di splendido, di terribile e d’indimenticabile… e tuttavia aveva dimenticato. Ma dove? Che cos’era spuntato là davanti a lui, così grande, così doloroso, così delizioso, e poi di nuovo scomparso?… Si svegliò di nuovo e, mentre il mondo dei sogni si dileguava rapidamente, vide, ritrovò l’immagine e trasalì come per una voluttà dolorosa. Vide: era diventato veggente. Vide lei. Vide la grande, radiosa figura dalla bocca fiorente, dai fulgidi capelli. Vide sua madre. Al tempo stesso credette di udire una voce: “Hai dimenticato la tua infanzia”. Di chi era quella voce? Tese l’orecchio, pensò, trovò. Era Narciso. Narciso? E in un attimo, con un colpo brusco, tutto ritornò presente: ricordò, seppe. Oh! mamma, mamma! Montagne di macerie, mari d’oblio erano rimossi, scomparsi; con superbi occhi azzurri e luminosi la Perduta lo guardò di nuovo, l’ineffabilmente Amata» (p. 48 ss).
Ecco comparire la figura della madre, rispecchiante l’infanzia che fu e che non è, la madre Perduta e Amata.
Dal momento dell’incontro con questa consapevolezza Boccadoro vive nella ricerca di qualcosa, del vero Sé che ha finalmente intravisto ma che non riesce a vivere a causa delle profonde cicatrici impresse dalla mancanza protattasi nel tempo di tale essenza. Inappagato e incontentabilmente alla ricerca del mezzo per colmare il vuoto di cui ha preso nuova coscienza, ottiene vari successi soprattutto nelle vesti di artista, ma benché tale forma espressiva offra un mezzo per poter accedere al vero Sé continua a vivere con l’inquietudine di chi percepisce una vita che non gli appartiene. Sebbene tramite un fortunato incontro con l’arte viva la possibilità di esprimere il vero Sé, tale realtà non viene riconosciuta e compresa. Il significato della propria interiorità non è capito da Boccadoro che, addirittura, pare se ne difenda con vigorosa ma incerta convinzione.
All’opposto, il vagabondare offre l’apparente certezza della libertà che colma se non altro i segni remoti dell’obbligata accondiscendenza che visse in lui. Seguendo la speranza di incontrare quello a cui non riesce a dare un nome, Boccadoro trascorre gran parte della sua vita immerso in un percorso dettato dalla ricerca di tutto e di niente, metafora del viaggio interiore senza meta. La vita errante offre possibilità inattese quali la conoscenza tutt’altro che platonica di varie persone del sesso opposto, esperienze che foraggiano illusoriamente il tema assai ricorrente nel falso Sé grandioso della sperata eterna giovinezza. Ma come tutte le illusioni, anche quella dell’immortalità si scontrerà violentemente contro i miraggi di Boccadoro il quale non accetterà la morte della giovinezza, avvicinandosi così, almeno nel nome, all’amico Narciso. D’altronde, neppure lo stretto contatto con la morte e con il rischio vissuto durante la vita da vagabondo preoccupa Boccadoro che, non essendo mai veramente nato, non riesce nemmeno a pensare se stesso diversamente da vivo.
Concludendo, tra i molti dubbi derivati dalla lettura ne rimane uno alquanto intenso. Le due figure, Narciso e Boccadoro, si cercano e si trovano in quanto animati dalla ricerca di caratteristiche assenti in ognuno di loro ma presenti nell’altro. Ma di cosa si tratta, cos’è che cercano? L’interrogativo non sembra trovare facilmente una risposta chiara e univoca. Anche accettando quello che l’autore tra le righe afferma, ossia che Boccadoro usa Narciso come mezzo per accedere al suo mondo interiore, manca sempre la controparte; cosa attrae così fortemente Narciso? Non è chiaro, Narciso potrebbe nascondersi e ricercare in Boccadoro quello che a lui manca, ovvero la libertà, esperienza che intravede celata nell’amico grazie all’occhio clinico ed esploratore proprio dei soggetti falso Sé che hanno imparato nella vita ad adattarsi alle esigenze degli altri per poterle soddisfare. E la domanda si trasforma: i due si cercano perché opposti nell’espressione ma entrambi portatori di un falso Sé? Alla luce di questo, risulta più chiaro comprendere cosa significhi che Narciso «vedeva la natura di Boccadoro e, malgrado fosse l’opposto della sua, la comprendeva a fondo, perché ne era l’altra metà, la metà perduta» (p. 28).
BIBLIOGRAFIA:
- Hesse, H. (1930). Narziss und Goldmund [Narciso e Boccadoro (1989). I edizione Oscar classici moderni, Milano: A. Mondadori].