Articolo pubblicato su Quaderni di Psicoterapia Comparata, nr. 5/2016 (giugno 2016)
Negli anni '90, parallelamente alla diffusione della rete Internet, sempre più persone entrarono in contatto con il concetto di ipertesto, ovvero la possibilità di approfondire velocemente aspetti del testo in consultazione semplicemente selezionando un termine di tale testo. Tale possibilità, oggi praticamente ovvia, segnò una vera e propria rivoluzione. Fu il primo vero passo per la transizione da un antico metodo di fare ricerca e studio ad uno tutto nuovo.
Precedentemente all'avvento dell'ipertesto (hyperlink) approfondire un argomento significava innanzi tutto scoprire quali testi esistessero sull'argomento e quali tra i molti potessero essere considerati autorevoli; successivamente tali testi dovevano essere rintracciati nei vari archivi e biblioteche. Solo allora poteva iniziare la prima fase dello studio, ed ogni volta che si incontravano concetti e termini nuovi doveva essere tollerata la frustrazione di non poterne avere immediato approfondimento, ma bensì i nuovi pensieri sorti dovevano essere conservati in qualche appunto scritto o mentale, da riprendere in un secondo momento e approfondito attraverso nuove ricerche e letture. Per quanto oggi tutto questo rischi di sembrare preistoria per molti di noi nati con le enciclopedie e senza sapere cosa fosse un catalogo digitale è stata la normalità per decine di anni. Un lavoro faticoso, ma che ricambiava con la gratificante sensazione del lavoro della mente, con la fondamentale acquisizione della pazienza, con il rafforzamento della capacità di saper aspettare e con lo sviluppo di una vera e sana epistemofilia. Non capire significava approfondire, darsi tempo, continuare a cercare sino a che l'oscuro poteva diventare leggermente chiaro e, si sperava, alla fine trasparente.
Con l'avvento dell'ipertesto tutto questo divenne più immediato, un termine sconosciuto poteva collegarci nel tempo necessario a premere un tasto ad un nuovo testo dove trovare esaustive spiegazioni del concetto stesso. Con questo comparve una nuova sensazione sino ad allora praticamente estranea per quanto riguardava questo campo, ovvero il senso di stordimento da sovraccarico di informazioni, la nostra mente e le strutture che la sorreggono non erano in grado di gestire con disinvoltura così tante informazioni nell'unità di tempo, informazioni per giunta qualche volta nemmeno così evidentemente collegate tra di loro in quanto l'ipertesto rischiava spesso di diventare un pesante telefono senza fili dove non sempre si poteva ricordare il percorso che ci aveva guidato dal punto di partenza a quello di arrivo. Ma sicuramente l'ipertesto gratificava il nostro narcisismo, si adagiava dentro di noi alla stregua di una protesi mentale in grado di farci sentire superstudiosi in grado di sapere tutto in poco tempo, facendoci dimenticare una volta per tutte il piacere del dedicare tempo ad una così importante attività.
Questo pareva un punto di arrivo, ma ben si sa che la mente ama l'economia, un po' meno che anche l'economia può dare dipendenza. Ed è così che una volta provata la sensazione che l'economia ci produceva il mondo digitale ci propose il passaggio successivo, ovvero una sempre più marcata sostituzione del testo con l'abbreviazione del testo, un po' perché leggere sui nuovi media era faticoso di per sé, un po' perché leggere meno appagava la nuova astinenza. La bellezza del testo non era più condizione necessaria, a morte le perifrasi e le secondarie, dimentichiamoci del punto e virgola furono i nuovi impliciti slogan sottostanti alla esplicita rivoluzione. Così il testo divenne breve, conciso, a rischio di fraintendimenti, e la mente poco a poco sperimentò la trappola dell'eccesso di ozio, tanto gratificante nell'immediato quanto pericoloso nel tempo.
Il testo era diventato breve, colmo di collegamenti con altri testi, poco importava se sempre pertinenti o autorevoli, oramai il testo era per tutti e tutti potevano scrivere testi, si era persa definitivamente l'autorizzazione a scrivere e tutti si autorizzavano a scrivere, proprio come in questo momento fa il presente.
Ma la mente gode dell'economia, del risparmio, già lo abbiamo scritto e vorremmo economizzare nel doverlo ribardire, ed è così che dopo un po' anche la parola scritta divenne troppo lenta da acquisire, proprio o a seguito di quel momento l'immagine fece la sua irruzione nel web ed imparammo che è molto più intuitivo e veloce capire qualcosa guardando rispetto che leggendo. Si perdeva così ulteriormente il dono dell'approfondimento, si allenavano ancor meno le nostre funzioni mentali ma poco importava a fronte del risparmio di fatica offerto. Una immagine al posto di cento parole fu la frase rubata da tutti agli esperti di marketing.
Inutile far finta di doverlo scoprire una volta ancora, anche l'immagine era destinata ben presto a diventare troppo faticosa da comprendere, ed è così che l'Artusi si ritrova imbarazzato su qualche scaffale in cantina (quando la sorte ha deciso di assisterlo) e in cucina il tablet con il video passo passo di come preprare quella cosa lì senza bisogno di capire il senso di ciò che diligentemente dovremo imitare come piccioni addomesticati.
Stessa sorte della perfusione via web è toccata agli altri mezzi di comunicazione, basti pensare ai telefoni cellulari dove l'sms si sostituì progressivamente alla parola, per poi divenire abbreviazione testuale sempre più esasperata sino a giungere oggi all'emoticon, massima –per ora– espressione della fatica del comunicare.
Ironia della sorte, leggende e qualche autorevole libro narrano che l'SMS fu inventato da due ricercatori, sordomuti, che si erano creati nel sistema GSM in sperimentazione un loro piccolo canale di comunicazione per utilizzare quel sistema nonostante le loro impossibilità; pare che venisse utilizzato per cose tipo "inizia a preparare la cena che tra poco tornerò a casa".
Ho iniziato a mettere insieme i passi di questa breve e sarcastica riflessione sulla involutiva evoluzione della comunicazione umana partendo da una riflessione ben meno divertente ovvero ripensando agli albori della nostra professione di psicoterapeuti. Correva l'inizio del ventesimo secolo (per i puristi la fine del diciannovesimo) quando la psicoanalisi trovò per la prima volta una autonoma definizione. Si dichiarava per la prima volta la possibilità di un processo lento, pensato, riflettuto per potersi porre domande in una cornice dove il tempo era un tempo a misura d'uomo, enciclopedico a questo punto verrebbe la voglia di scrivere. Ma gli uomini che vogliono leggere e purtroppo anche quelli che dovrebbero scrivere, oramai si è capito, sottostanno al bisogno di prigrizia (scusate al principio di economia volevo scrivere) ed è così che la storia della psicologia ha visto poco a poco opporsi a tale complesso ma umanamente consono modo di riflettere teorie e tecniche sempre più Youtube Style, sempre più basate sul "so io cosa devi fare per stare meglio, so io anche per te a cosa in realtà stai pensando", con una procedura certa da applicare per ogni affezione poco certa affinché tu possa guarire (terribile parola, davvero terribile quando si parla di mente). Se accadrà a noi psicologi quello che è accaduto nel mondo digitale forse tra poco nemmeno le terapie cognitivo-comportamentali saranno più abbastanza brevi e incisive ma dovremo elidere anche il cognitivo per tornare alla mitica scatola nera del dott. Prof. Watson.
Ma l'uomo è davvero così stupido e immediato? Ma la mente davvero si ammala o piuttosto potremmo tornare a pensare ad una mente che all'opposto si ingegna con ogni suo mezzo e risorsa per cercare di sopravvivere? Forse possiamo autorizzarci a sognare almeno un po' un futuro dove si riscopra il piacere di sfogliare una enciclopedia con calma, pagina per pagina, lasciando che ogni emozione e quel particolare odore si diffonda di nuovo nei nostri pensieri e ci conduca in compagnia attraverso quei magnifici viaggi uccisi troppo spesso da un frettoloso "mi piace".